In ottemperanza alla Legge Comunitaria 2015-2016, la L. n. 122/2016 ha introdotto una serie di disposizioni in varie materie e per prevenire procedure di infrazione.
In materia di lavoro la legge interviene per modificare l’art. 29 del D. Lgs. 276/2003 che disciplina l’istituto dell’appalto, al fine di assicurare una migliore rispondenza della norma italiana alle direttiva comunitaria concernente “il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”.
Come noto, l’appalto è il contratto con il quale un imprenditore (appaltante), si rivolge per l’esecuzione di un’opera o un servizio ad un altro soggetto (appaltatore) che ne assume il rischio d’impresa e che è in possesso di una propria organizzazione di uomini e mezzi. Questi sono gli elementi che la disciplina contenuta nell’art. 29 del d. lgs. 276/2003[1] detta per la individuazione di un appalto genuino e, quindi, per vietare la somministrazione fraudolenta di mere prestazioni di lavoro.
Il divieto di appalto di mere prestazioni di lavoro era stato introdotto dalla legge 1369/1960, sopravvissuto con la L. 196/1997, per essere poi soppresso dal d. lgs. 276/2003, il quale ha introdotto un divieto generale delle forme di somministrazione fraudolenta e irregolare.
Per la legge del 1960 l’esistenza in capo all’appaltatore di una organizzazione di mezzi (macchinari, attrezzature, ecc.), costituiva un essenziale elemento di liceità dell’appalto. Tale criterio è risultato nel tempo molto rigido ed obsoleto rispetto ai cambiamenti e agli sviluppi dell’economia e del mercato del lavoro, che hanno portato le imprese a ricorrere in maniera consistente alla esternalizzazione dei servizi e alla diffusione degli appalti a c.d. bassa intensità di capitale.
L’intervento di riforma del d. lgs. 276/2003, in materia di appalto introduce il divieto più generale di somministrazione fraudolenta, pertanto, è considerato legittimo anche l’appalto nel quale l’apporto di attrezzature e di capitale risulti marginale rispetto all’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto che, dunque, deve essere esercitato in via esclusiva dall’appaltatore.
Laddove ciò non sussiste l’appaltatore è un imprenditore la cui funzione è quella di interporsi nella fornitura di personale, ipotesi sanzionata in quanto la normativa prevede che tale attività possa essere svolta da soggetti in possesso di specifica autorizzazione, ossia dalle agenzie di somministrazione. In tale ipotesi il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo.
Appalto e somministrazione si possono ben distinguere, dunque, dalla finalità della attività: nel primo caso l’appaltatore è direttamente produttore dell’opera o del servizio fornito mediante la propria organizzazione di mezzi e uomini, o anche soltanto mediante l’impiego di lavoratori da lui organizzati e diretti; nel secondo caso, l’agenzia di somministrazione non svolge alcuna attività produttiva in quanto si limita ad assumere e retribuire lavoratori per poi fornirli alle imprese utilizzatrici che esercitano sugli stessi il proprio potere direttivo ed organizzativo.
La L. n. 122/2016, modificando l’art. 29, rafforza il concetto dell’appalto introducendo gli elementi che lo caratterizzano nella norma che disciplina il cambio di appalto.
Nello specifico, il comma 3 del citato articolo 29 era in contrasto con i principi comunitari in quanto, nei casi di cambi di appalto, escludeva la configurabilità di un trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 2112 del c.c. violando, conseguentemente, le tutele minime imposte a livello comunitario.
Secondo l’art. 2112 del codice civile, infatti, in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; prevede, inoltre, che il cedente ed il cessionario siano obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento.
A seguito della modifica legislativa il nuovo comma 3 dispone che:
“L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.
Le modifiche introdotte al testo, riportate in corsivo, sostanzialmente rappresentano le condizioni che devono sussistere congiuntamente perché l’appalto conservi la sua autonomia rispetto al trasferimento di azienda e perché non trovino operatività le tutele dell’art. 2112 del c.c.
In base alla previgente disciplina, dunque, il cambio del soggetto appaltatore non era sufficiente ad integrare un mutamento nella titolarità di una organizzazione economica, necessario ai fini della configurazione di un trasferimento di azienda.
Pertanto, si resta nella sfera dell’appalto se:
Con la nuova formulazione della norma, quindi, è più chiara l’area di applicabilità dell’art. 2112 del c.c.. Ne consegue che, in caso di cambio di appalto, i rapporti con i dipendenti si costituiscono ex novo con il nuovo datore di lavoro che può applicare un diverso contratto collettivo.
Differentemente, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, non vi è soluzione di continuità nei rapporti di lavoro, con il mantenimento, dunque, di tutti i diritti e dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario, ma ciò è possibile esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.