Il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 riordina la disciplina dei contratti di lavoro, introducendo la nuova regolamentazione delle mansioni e ponendo particolare attenzione alla mutazione delle stesse.
Dopo aver riaffermato, in generale, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, la nuova norma ora stabilisce che lo stesso può essere adibito: “…a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
Pertanto, rispetto al passato, non si fa più riferimento alla “equivalenza delle mansioni”[1] che costringeva il datore di lavoro ad una comparazione tra la vecchia mansione e quella nuova. Ora è possibile che le mansioni vengano mutate purché ciò avvenga tra quelle indicate nello stesso livello di inquadramento del CCNL, all’interno della stessa categoria legale (operai, impiegati, quadri e dirigenti) e ovviamente a parità di retribuzione e senza necessità di ottenere il consenso del lavoratore.
Il legislatore mitiga la rigidità della precedente formulazione dell’art. 2103 c.c. prevedendo la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni riferite al livello di inquadramento inferiore in presenza delle seguenti condizioni:
stessa categoria legale di inquadramento (non sarà possibile far retrocedere il lavoratore, ad esempio, da una posizione impiegatizia ad una operaia).
La variazione “in peius” delle mansioni del lavoratore, dunque, rientra ora tra i poteri organizzativi dell’imprenditore in presenza delle motivazioni oggettive suddette. Il lavoratore mantiene il diritto alla conservazione del livello di inquadramento acquisito al momento di assegnazione alle nuove mansioni e del trattamento retributivo in essere, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a
particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (ad es. indennità di cassa, di trasferta ecc.).
Il datore di lavoro è tenuto a fornire la formazione necessaria ai fini di adeguare le competenze del lavoratore alle nuove mansioni. Tuttavia, il mancato rispetto di tale obbligo non comporta la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni.
L’esercizio del c.d. “ius variandi in peius” può avvenire legittimamente anche sulla base di ulteriori ipotesi previste dai contratti collettivi.
Al riguardo l’art. 51 del D.Lgs n. 81/2015 chiarisce che per contratti collettivi si intendono:
Il mutamento delle mansioni deve essere comunicato per iscritto, a pena di nullità (con l’aggiunta delle motivazioni, cosa opportuna pur nel silenzio della norma).
La vera novità introdotta dal legislatore delegato è contenuta nel comma 6 dell’art. 2103 c.c. laddove è previsto che le parti, datore di lavoro e lavoratore, possono sottoscrivere un accordo di modifica delle mansioni, della categoria, del livello di inquadramento (in questo caso anche per più di un livello) e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore:
Gli accordi di modifica delle mansioni possono essere sottoscritti in una delle seguenti “sedi protette”:
Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.
Riguardo l’assegnazione a mansioni superiori il legislatore detta regole nuove. In particolare, l’assegnazione diviene definitiva:
Rimane invariato il divieto di trasferire il lavoratore da un‘unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Inoltre, è nullo ogni patto contrario fatta eccezione per le ipotesi di demansionamento previste dalla norma: modifica degli assetti organizzativi aziendali, ulteriori ipotesi previste da contratti collettivi e accordi sottoscritti nelle sedi protette.
Infine, il D.Lgs n. 81/2015 dispone l’abrogazione dell’articolo 6 della Legge 13 maggio 1985, n. 190 che prevedeva l’assegnazione a mansioni superiori ovvero a mansioni dirigenziali del lavoratore appartenente alla categoria dei quadri, qualora la stessa si fosse protratta per il periodo di tre mesi o per quello superiore fissato dai contratti collettivi. Tale abrogazione risulta coerente con la disciplina introdotta dal nuovo art. 2103 c.c..
Cordiali saluti.
[1] Il giudizio di equivalenza deve tener conto delle mansioni di provenienza e di quelle di destinazione del lavoratore (dato oggettivo) nonchè la possibilità di utilizzare o perfezionare l’esperienza acquisita dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni di destinazione.